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Si dice spesso che il Novecento è stato il secolo delle “morti”. Non solo di quelle reali, delle tragedie umane, politiche e sociali che hanno attraversato questi cento anni di storia; ma anche di morti, per così dire, “figurate”. Si è parlato a lungo della “morte dell’arte”, della “fine della filosofia” e così via. Ovviamente, fra queste illustri scomparse, non poteva certo mancare quella della storia,  ed ecco così illustri autori, pensatori e storici stessi a riflettere sulla, vera o presunta che sia, fine della storia. Si tratta, come potrete facilmente intuire, di un tema immenso, con mille rivoli e sfaccettature difficili da seguire. Vorrei allora provare a percorrere uno dei numerosi fili che in questa riflessione si potrebbero seguire, cercando in qualche modo di completare quel quadro che avevo cercato di accennare nel mio ultimo articolo. Vorrei quindi provare a sottolineare come questa “fine della storia” non sia poi forse così reale, e, soprattutto, come sia essa stessa un agente della nostra realtà.

L’idea di una fine della storia è in realtà ben antica e accomuna le più disparate visione teologiche e politiche. Rispetto però al dibattito novecentesco ci si riferisce all’interpretazione che di questo tema ne ha dato Fukuyama, storico e scienziato politico statunitense. La “fine della storia” è intesa a partire dall’idea che la storia dell’uomo abbia raggiunto il suo punto di massimo progresso: il sistema politico occidentale, liberal-democratico rappresenterebbe così il culmine di tutto il percorso storico dell’umanità. Il crollo del muro di Berlino, la fine dei regimi fascisti e di quelli comunisti, rappresenterebbe il definitivo segno del successo delle democrazie liberali. Non è mia intenzione, né ho le competenze adatte a farlo, discutere sulle ragioni e sulle conseguenze geopolitiche ed economiche di questa tesi. Vorrei piuttosto soffermarmi su due altri aspetti: su come questa tesi sia un elemento motrice della storia stessa e su come questo modo di concettualizzare la storia possa risultare in qualche modo conservatore.

Un primo aspetto pare allora essere questo: anche le idee agiscono. Anche le idee sono fatti, influenzano le persone, le loro vite, il loro modo di pensare e di comportarsi. Ecco allora che la stessa idea di “fine della storia” ha una funzione motrice: spinge le persone ad agire in un modo piuttosto che in un altro, porta a intendere in un certo modo il tempo presente e a muoversi di conseguenza. In particolare le tesi di Fukuyama sono chiaramente ideologiche, e lo sono in maniera piuttosto chiara ed aperta. La sua riflessione si caratterizza immediatamente per voler essere un’apologia della contemporaneità, una difesa, se non una celebrazione dell’assetto politico uscito vincente dalla guerra fredda. Non mi voglio soffermare a discutere quest’aspetto, su cui pure molto ci sarebbe da dire. Quello che mi pare interessante è come, nel dichiarare conclusivo questo stadio, si celi un desiderio, una precisa volontà politica. Insomma, si dice che la storia è terminata perché, in fondo, la si vuole terminata. Si dice che il progresso è giunto al culmine perché si vuole che il progresso si fermi. Ecco, questo mi sembra il ruolo “ideologico” della tesi di Fukuyama; nelle sue riflessioni si avverte una sorta di “wishful thinking“, si dice vero ciò che si vorrebbe vero. In tutto questo non c’è forse niente di male, il punto però è che in questa volontà, in questo atteggiamento normativo e non puramente descrittivo si avverte come le tesi dello storico statunitense non abbiano solo l’intenzione di dipingere la realtà, ma piuttosto quello di indirizzarla.

Resta allora da domandarsi qual’è la direzione verso cui si vuole spingere la storia. Nel caso di Fukuyama è abbastanza chiaro, egli intende porsi a difesa e sostegno delle forme politiche liberal-democratiche dell’Occidente contemporaneo. C’è pero in generale un elemento comune che si può rintracciare in tutte quelle teorie che ritengono la storia giunta al suo termine e si tratta di un atteggiamento esplicitamente conservatore. Chi ritiene concluse le vicende umane, chi ritiene ormai stabile il mondo dell’uomo nella contemporaneità tende a sottostimare i problemi, i conflitti e i motivi dialettici che agiscono nel presente. Chi pensa alla storia sul modello dell’eterno ritorno e chi la pensa come terminata, hanno in comune un elemento: la critica alla tradizionale concezione del progresso. Per quanto infatti sia problematica tale nozione, essa è indubbiamente un elemento propulsore, un fattore critico nei confronti del presente. Al contrario di chi teorizza più o meno mistiche “fini” della storia, la nozione di progresso, per quanto possa apparire altrettanto ottimista, fa sue in realtà numerose critiche che si possono avanzare alla teoria di Fukuyama. Lungi dal santificare il presente, la nozione di progresso è spinta a darne una valutazione maggiormente ambigua e problematica. Da un lato questo risulta migliore, se confrontato col passato, dall’altro appare invece come ancora insoddisfacente, se messo a confronto con un punto terminale che, invece di essere a noi contemporaneo, è posto nel futuro. Il termine della storia non coincide affatto con la nostra collocazione nella storia, ma è piuttosto un punto del nostro orizzonte, che, indipendentemente dalla sua realizzabilità, risulta un fondamentale termine di paragone per il nostro tempo.

2 thoughts on “La storia non è (ancora) finita

  1. Libro del 1992 con idee del 1992.
    Credo che la crisi attuale stia spostando questo orizzonte, soprattutto per le giovani generazioni.
    Evidentemente, si sta creando lo spazio per nuovi storici.

  2. Pingback: Nozionismo della ragione | In Vero Vinitas

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