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Dopo le feste: il vuoto – iniziare qualcosa

Non è semplice “rientrare”, tornare alla normalità, dopo le smanie per la villeggiatura. O riprendere anche solo l’occupazione di sempre dopo ferie che non si sono potute fare, ma in qualche modo si è visto fare, nelle città svuotate o semipiene. Neppure è semplice, purtroppo, continuare a non avere alcuna occupazione, affrontare settembre, dopo avere tuttavia avvertito “qualcosa”, tra il prima e il dopo le ferie altrui , “qualcosa” di differente almeno nelle sequenze di immagini viste alla televisione.

Insomma non è impegnativo affrontare la fine dell’estate, che è inizio dell’anno anche per chi non lo festeggia a settembre, ma alla fine di dicembre, a gennaio. Settembre, diceva una canzone, è “il mese dei ripensamenti”: si dà un’occhiata al passato, ma l’energia della festa trascorsa ti fa – o dovrebbe farti – guardare il futuro con fiducia ed ottimismo. Per questo mi ha detto un giornalaio a settembre si “lanciano” in edicola le nuove serie a dispense: “Le grandi battaglie del XX secolo” ed “Orologi dal mondo”.

Rifugi antiaerei via Pitteri

Rifugi antiaerei – Via Pitteri (Milano)

Abbandono di ciò che era vivo – vuoto

Ma non c’è peggior esperienza – ognuno lo sa – che terminare gli scampoli delle ferie chiusi in macchina in coda al caldo nel frastuono dell’abitacolo e dei clacson dell’esterno. E dovere sopportare la situazione di disagio per chilometri e chilometri, fino alla tangenziale della propria città, fino alla via di casa. Forse l’esperienza è utile, però, a farti osservare le cose – dal finestrino – al rallentatore, a guardare ciò che hai sempre solo visto, intravisto con occhi diversi.

All’uscita della tangenziale la coda prosegue fino all’innesto di via Rubattino e alla rotonda si biforca: una fila verso il centro, l’altra verso Segrate. Al rallenty della coda si ha tutto il tempo per osservare. Si vedono soprattutto macerie o strutture obsolete, resti di edifici che si presentano con una scritta per quello che non sono più. Chi giunge in via Pitteri incontra un casello abbandonato: “Pesa” è indicato sull’asfalto ancora, perché fino agli anni Cinquanta-Sessanta prima di entrare in città i gabellieri fermavano, controllavano,  ispezionavano, “pesavano”, come nel Medioevo le merci dei carri che giungevano dal contado.

Non serve più. Non serve più neppure la caserma che sta di fronte alla pesa. Si vedono dei tronchi di piramide o coni grigi, che spiccano oltrepassando il muro di cinta ed il filo spinato del reticolato. Sono in cemento armato, il materiale tipico del Novecento, il secolo che è stato definito non solo “breve” ma anche “fragile”, ché,  se all’inizio non sembra, poi, col tempo, il cemento si sbriciola, sfarina, rimane l’armatura contorta di un edificio, tondini arrugginiti.

Non servono più. Da quando, i sovietici non impensieriscono i confini della Nato, è caduto il Muro di Berlino e in Italia è cessato inoltre il tempo della coscrizione obbligatoria, un gran numero di caserme si è svuotato, inutilizzabile. Non servono più ed anche a Milano si stanno chiudendo. Certe architetture militari come le piramidi via Pitteri sembrano sopravvivenze del tutto irrazionali. Si presentano però ancora decentemente; non sono proprio come quella di Cestio a Roma, ma si percepiscono come qualcosa di strano, di particolare: quando furono edificate non c’entravano nulla con il contesto, ma hanno fatto radici e il tempo ne ha smussato l’aspetto esteriore dissonante. Non hanno più una funzione, ma da decenni stanno in una via, appartengono ormai al luogo, ne sono parte integrante, costitutiva. Non sono più bunker o polveriere, rovine delle guerre del XX secolo, di quelle combattute e di quelle “fredde”, ma è  il loro aspetto “esotico” ad imporsi alla vista.

Forse è la dimensione evocata da Marc Augé: “la vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita”. Probabilmente le rovine sono testimonianza di strutture del passato che hanno acquisito negli anni un’aura, quello che Augé definisce “”un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni”. L’intervento di restauro allora si rivela opera ardua: mantenere il carattere materiale di testimonianza del reperto ma non cancellare il fascino acquisito dalla fine materiale di tale testimonianza e dall’acquisizione di quel “tempo puro”.

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Frequentare rovine

Gli automezzi in coda  sfilano lentamente di fronte alla vecchia Innocenti. Chi non sa cosa fosse l’Innocenti legge solo un nome scritto sull’edificio dove erano gli uffici dell’amministrazione e le mense. Anche se schiacciato da un’area recentemente lottizzata, edificata – abitazioni residenziali fitte fitte per cui si sarebbe potuto destinare maggiore spazio verde – il parallelepipedo è ancora in piedi e si spera sia quanto prima destinato a edificio scolastico.

Lì c’è il Lambro e per questo un’industria meccanica, l’Innocenti appunto, nei primi anni difficili dopo la guerra chiamò Lambretta uno scooter che presto s’impose in Italia – con la concorrente Vespa della Piaggio –  perché  economico mezzo di trasporto. Era la seconda metà degli anni Quaranta; con il boom dei Cinquanta ci un salto di qualità nel campo del trasporto privato di massa: la possibilità per molti di acquistare un’”utilitaria”.

Utilitario: “Che mira in modo esclusivo o prioritario all’utilità, a un utile o vantaggio: […] automobile o autovettura utilitaria: quella di piccole dimensioni e di cilindrata ridotta, caratteristiche che consentono di ridurre al minimo sia il prezzo d’acquisto sia i costi di esercizio”; così la Treccani. Opportunamente la copertina del libro I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, presenta una rivisitazione del Manifesto pubblicitario per la nuova 500 Fiat degli anni Cinquanta: una famiglia ammira l’auto: padre – madre – figlio – figlia – si avvicinano sorridenti all’utilitaria: lei accarezza la lamiera, lui, più discosto, le mani sopra le spalle dei ragazzi, pare  pensare: “Un giorno tutto questo sarà…”. La Cinquecento è uno dei simboli di massa più incisivi del nostro secondo dopoguerra, ma tuttavia anche il ruolo della “rivoluzionaria Mini Morris, distribuita dalla Innocenti” va ricordato (lo fa Omar Calabrese in un intervento raccolto nel libro sui miti italiani).

La maggior parte delle strutture della vecchia fabbrica automobilistica sorta lungo il Lambro sono state demolite. Si dice che nel Palazzo di cristallo sopravvissuto sia previsto “il nuovo polo cittadino del cibo, una grande piazza coperta dove produttori e consumatori si incontrano secondo la filosofia del chilometro zero per abbattere i costi di distribuzione”. Buona idea, in teoria; che tuttavia pare avulsa dalla storia recente, fatta di tradizione industriale, di questa zona della città (Lambrate – Ortica). Il polo del cibo potrebbe essere accolto più coerentemente in una delle tante vecchie cascine da restaurare. Perché non aver pensato per i grandi spazi espositivi del Palazzo di cristallo – che ha preso il nome dall’edificio in ferro e vetro costruito a Londra nel 1851 in occasione della prima Esposizione universale della storia– una mostra stabile per ricordare la Milano delle moto e delle automobili – dal tempo  dell’Isotta Fraschini dei Marinetti a quella delle Lambrettte del boom –  attingendo reperti dal Museo della scienza e della tecnologia, che pare esplodere nei suoi spazi nel centro urbano (inoltre sono chiuse le collezioni automobili, motociclette e biciclette: riapertura in data da definire) o da quello dell’Alfa Romeo (non visibile da tempo al pubblico, in attesa che giunga ad Arese  il responso da Torino o  Detroit).

Imbalsamare – far rivivere

Si dovrebbero tutelare queste strutture: mantenerne l’aspetto esteriore ed adibirne l’interno a scopi del tutto diversi da quelli per cui sono state edificate. Ma chi deve suggerire, indicare le nuove finalità di questi vecchi contenitori? Sembra sia opportuno da una parte evitare le scelte politiche astratte o, al contrario, eccessivamente “realistiche” e dall’altra le sponsorizzazioni private troppo invasive e soffocanti. Evitare la fine fatta dalla “volonterosa e bernoccoluta 1200” del Pasticciaccio di Gadda: carcassa “che tutti, ora in quella macchina, politica o non politica, v’introducevano il capo a contraggenio e uno scarpino peritoso dopo il capo, l’altro stivale ancora  terra, e un occhio suspicante e ispettivo, e narici ad atto del pari […]”.

Sembra opportuno: consultare la gente che frequenta quei luoghi o abita nei quartieri dove tali spazi sono ubicati. E’ necessario chiedere ai cittadini: Come vorreste che fossero le vostre piazze? Ai bambini: Come vorreste le nuove aree gioco? E’ una via in parte intrapresa di recente per il progetto dei Magazzini raccordati della stazione Centrale di Milano; una strada prevista per la riqualificazione di piazza  Corvetto e Tirana – di piazzale Gabrio Rosa e  Selinunte.

Un po’ di verde, qualche panchina, uno specchio d’acqua che non serve a niente

Il restauro, la tutela di ciò che era in passato potrebbe anche suscitare critiche, come in parte è avvenuto nel caso della riattivazione – attuata nell’ambito del progetto “Le Vie d’Acqua” di Expo 2015 – del canale che lambiva la facciata del cimitero di Musocco, interrato nel dopoguerra per ragioni estetiche. “Immaginavamo un canale navigabile, non un rigagnolo lungo poche decine di metri”, ha commentato qualche residente.

Forse è opportuno ricordare che Milano un tempo non era solo percorsa da navigli navigabili, barconi che portavano merci in città. Quando i fiumi Lambro e Seveso non erano strozzati da gabbie sotterranee e coperti dall’asfalto, canali, rogge, fontanili scorrevano numerosi in superficie. Qua e là in città è possibile rintracciare ancora – come risorgive tra l’asfalto – brevi tratti di corsi d’acqua. Il problema non è tanto quello di renderli navigabili, ma di trasformarli da luoghi di discarica abusiva in piccole oasi: un po’ di verde, qualche panchina, uno specchio d’acqua che non serve a niente, se non a essere guardato in pace.

Le auto in coda superano il Lambro; il fiume quasi non si vede, solo s’intravede s’intuisce: su un lato il terreno è di aspetto lunare: cumuli di terra paiono enormi formicai, spezzoni di alberi affumicati, residui di nomadi. Un tempo l’odore del corso d’acqua si mischiava a quello dei fumi del compostaggio. Oggi come ieri la presenza del Lambro si avverte fisicamente, quando percorri il tragitto in moto o in bicicletta, ché in quel tratto di strada la temperatura cambia, scende di colpo: si fa freddo e umido, come quando uno è sulle rive di un fiume vero.

Roma, Piramide Cestia e Porta San Paolo

Piramide Cestia – Roma

Andrea Quadrellaro

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